giovedì 17 gennaio 2013

LA FILOSOFIA DEL VALUE INVESTING


Nella prima parte di questo articolo ho esposto tre dei nove principi in cui Mohnish Pabrai (nella foto a fianco) sintetizza, nel suo recente libro The Dhandho Investor, la filosofia del value investing. Si trattava, come abbiamo visto, delle seguenti regole:
1. Concentrati nell’acquisto di quote di aziende già esistenti e ben avviate.
2. Investi in aziende semplici operanti in settori poco soggetti al cambiamento.
3. Compra aziende in difficoltà in settori in difficoltà.
Vorrei ora affrontare questi altri tre principi:
4. Compra aziende con un durevole vantaggio competitivo: il “fossato”.
5. Scommetti con forza quando le probabilità sono nettamente a tuo favore.
6. Concentrati sui giochi di arbitraggio.
Vediamoli in dettaglio, a partire dall’analisi del vantaggio competitivo, uno degli storici punti di forza del value investing e, in particolare, dell’approccio agli investimenti di Warren Buffett, il riconosciuto maestro di Pabrai.
Compra aziende con un durevole vantaggio competitivo
(Nei nostri investimenti) cerchiamo aziende che riteniamo siano praticamente certe di possedere enorme forza competitiva anche tra dieci o vent’anni”, scrive Warren Buffett nella sua lettera agli investitori del 1996.
Perché? La ragione è semplice. Si tratta di una caratteristica che assicura ottimi rendimenti nel lungo periodo. Come osserva Pabrai, “Buone aziende con dei buoni ‘fossati’ (vantaggi competitivi che proteggono dalla concorrenza, come i fossati di un castello, ndr) generano ritorni elevati sul capitale investito.”
Uno sguardo ai bilanci può dunque consentire di individuare aziende con dei vantaggi competitivi. Se anno dopo anno la redditività del capitale investito è sensibilmente superiore alla media, è logico dedurne che l’azienda ha dei punti particolari di forza che la rendono difficilmente aggredibile.
(I conoscitori della Formula Vincente di Joel Greenblatt, di cui ho scritto dettagliatamente in un altro post, avranno riconosciuto dei tratti familiari: la redditività del capitale investito – definita come EBIT/capitale circolante netto + immobilizzazioni nette – è infatti uno dei due parametri su cui la formula si basa).
Naturalmente, una volta rilevato che un vantaggio competitivo esiste, il problema è capire se e fino a che punto sarà durevole.
L’armamentario concettuale per condurre un’approfondita analisi delle condizioni di concorrenza in un mercato si deve, in larga misura, agli studi di Michael Porter, un professore alla Harvard Business School autore di due opere diventate dei classici: Competitive Strategy (1980) e Competitive Advantage (1985).
In esse, Porter prende le mosse dall’individuazione di 5 forze competitive, che assieme determinano l’intensità della concorrenza e, di conseguenza, la redditività di un’industria: la minaccia di ingresso di nuovi concorrenti, la minaccia di sostituzione dei prodotti o dei servizi, il potere contrattuale dei fornitori, il potere contrattuale dei clienti, il grado di rivalità tra i concorrenti esistenti.
Porter procede quindi ad analizzare le tre strategie che, in genere, le aziende hanno a disposizione per far fronte alle 5 forze competitive: leadership di costo, differenziazione (ad esempio, la capacità di offrire prodotti o servizi percepiti come “esclusivi”), focalizzazione (su un determinato target, segmento, o mercato geografico).
Non è questo il luogo per approfondire il modello di Porter. Sta di fatto che per il value investor è essenziale darsi degli strumenti per comprendere la forza competitiva delle aziende, e allo stesso tempo coglierne i limiti.
Partire da una migliore consapevolezza dei limiti è forse l’approccio più facile.
Per esempio, Pabrai cita tra le società che hanno saputo edificare attorno a sé dei grandi “fossati” nomi come American Express, Coca-Cola, BMW o Harley Davidson, o, in tempi più recenti, eBay, Google e Microsoft. Tra quelle praticamente prive di “fossati” ne indica altre, “nobili” decadute come Delta, Gateway o General Motors.
L’osservazione interessante è che anche per aziende come Delta, Gateway o General Motors c’è stato un tempo in cui godettero di rilevanti vantaggi competitivi, che le resero grandi. E’ però nella natura della competizione capitalistica procedere, via via, alla distruzione di questi “fossati.”
Pabrai cita uno studio di Arie de Geus, pubblicato nel 1997 in un libro dal titolo The Living Company.
In esso de Geus mostra come l’aspettativa di vita media di una blue chip americana, che arrivi a essere inclusa nell’indice Fortune 500, non supera i 40-50 anni. Ci vogliono 25-30 anni perchè un’azienda di grande successo entri nell’indice. A quel punto è già oltre l’apice della sua parabola: nell’arco di meno di 20 anni, la blue chip in genere cessa di esistere.
E’ per questo che, nel calcolare il valore intrinseco di un’azienda, Pabrai raccomanda di non utilizzare mai più di 10 anni di cash flow, e di non superare mai multipli di 15 volte il cash flow per calcolare il valore terminale. Le forze della “creazione distruttiva” sono imponenti, e nessuna posizione di vantaggio competitivo è destinata a durare indefinitamente.
Un’altra applicazione di questa analisi dei limiti del vantaggio competitivo ci viene da Warren Buffett, e riguarda la sua nota avversione a investire nel settore tecnologico.
Ecco cosa scrive Buffett nella lettera agli investitori del 1999:
“Diverse delle società in cui abbiamo rilevanti investimenti hanno riportato risultati deludenti nell’ultimo anno. Tuttavia, riteniamo che queste aziende abbiano importanti vantaggi competitivi destinati a durare nel tempo.”
“Tale attributo, che porta a buoni rendimenti di lungo periodo, è qualcosa che io e Charlie (Munger, ndr) pensiamo, ogni tanto, di essere in grado di identificare. Più spesso, tuttavia, non ne siamo capaci – almeno, non con convinzione forte abbastanza.”
“Questo spiega, tra l’altro, perché non teniamo in portafoglio titoli di società tecnologiche (Buffett scrive al picco della bolla del Nasdaq, ndr), anche se condividiamo il punto di vista generale che il nostro mondo sarà trasformato dai loro prodotti e servizi.”
“Il nostro problema – che non riusciamo a risolvere neanche con lo studio – è che non arriviamo a capire quali partecipanti nel campo tecnologico possiedano davvero un durevole vantaggio competitivo.” […]
“Se abbiamo un punto di forza, è nella capacità di riconoscere quando operiamo ben all’interno del nostro circolo di competenza e quando ci avviciniamo al suo perimetro. Prevedere le prospettive di lungo periodo di società che operano in industrie in rapido mutamento va ben oltre il nostro perimetro.”
Semplice e geniale! E nella lettera del 1996 Buffett già aveva toccato questo tema, aggiungendo una divertente metafora.
“Un’industria in rapido mutamento può offrire la possibilità di enormi guadagni, ma preclude la sicurezza che noi cerchiamo.”
“Vorrei sottolineare che, come cittadini, io e Charlie siamo a favore del cambiamento: idee originali, nuovi prodotti, processi innovativi e cose del genere migliorano gli standard di vita del nostro paese, e questo naturalmente è un bene.”
“Come investitori, tuttavia, la nostra reazione a un’industria in fermento è del tutto simile all’atteggiamento che nutriamo nei confronti dell’esplorazione dello spazio: applaudiamo l’impresa ma preferiamo evitare di imbarcarci per un viaggio.”
Scommetti con forza quando le probabilità sono a tuo favore
A questo quinto principio, che Pabrai riassume nella massima“Poche scommesse, grosse scommesse, sporadiche scommesse”, ho già accennato nel mio post Tre buone analisi e una regola del value investing.
Citavo in quell’occasione un bel detto di Charlie Munger: “I saggi scommettono con forza quando il mondo offre loro l’opportunità. Scommettono alla grande quando le probabilità sono favorevoli. Il resto del tempo, non lo fanno. E’ così semplice!”
Vorrei ora qualificare meglio il discorso, che rischia altrimenti di essere scivoloso. E’ evidente che questo principio comporta la concentrazione, anche elevata, dei portafogli. Si tratta di un tipo di condotta consigliabile alla gran parte degli investitori? Assolutamente no.
Il principio di base per un investitore non esperto, che non sia in possesso di informazioni superiori a quelle del mercato, dovrebbe essere la diversificazione e non la concentrazione del portafoglio.
E infatti, per fare un esempio ormai ben noto ai lettori di questo blog, Greenblatt con la sua Formula Vincente raccomanda di investire in una trentina di azioni, rappresentative di diversi settori del mercato.
Si tratta di azioni selezionate in modo da avere, nella media, un’elevata probabilità di battere il mercato. Ma siccome il semplice metodo di selezione (fatto di due soli criteri meccanicamente applicati) non garantisce, a livello di singolo titolo, una probabilità di successo sufficientemente elevata, la raccomandazione è, appunto, di diversificare.
Non è questo, tuttavia, il modo in cui Greenblatt, personalmente, investe con enorme successo da oltre 20 anni. La formula è per lui solo il primo passo. Dopodichè, sui titoli da essa selezionati, Greenblatt procede a una ben più approfondita analisi fondamentale.
Quando arriva a formarsi la convinzione che un titolo abbia un’alta probabilità di battere il mercato nel medio-lungo periodo, lì scommette con forza. Tipicamente, circa l’80% degli asset del fondo da lui gestito sono stati concentrati in soli 5 titoli, le sue 5 idee migliori.
Lo stesso fa da una vita Warren Buffett, di cui è noto come, negli anni ’60, arrivò a scommettere addirittura il 40% dei suoi capitali su un unico titolo, American Express, allora in crisi perché travolto da uno scandalo.
E così si comporta anche Pabrai, che investe di solito in non più di 10 titoli.
Per questi formidabili value investor il problema, una volta identificate le opportunità migliori all’interno del loro “circolo di competenza”, è decidere quanto puntare. C’è un metodo per stabilirlo?
Pabrai cita la formula di Kelly, ideata negli anni ’50 da uno scienziato dei laboratori Bell, John Larry Kelly jr., e che trovò presto applicazioni di successo nel mondo delle scommesse, prima ancora che nei mercati finanziari.
Mettendo in rapporto la propria stima della probabilità di successo di una giocata (investimento) con la quota assegnata dal bookmaker (mercato), si ricava la percentuale ottimale del proprio budget (portafoglio) da impegnare nella scommessa.
Non approfondirò l’argomento, che va, almeno per ora, al di là degli scopi del mio blog. Chi voglia saperne di più potrà trovare una spiegazione semplice ed essenziale, e il modo per calcolare la formula, in diversi siti di scommesse online, come ad esempio BetandSkill.
Una trattazione sofisticata ma relativamente sintetica, rivolta a investitori professionali, è contenuta in un recente saggio di Michael Mauboussin, dal titolo Size matters.
Mentre uno studio completo della formula di Kelly è affrontato nel libro di William Poundstone, Fortune’s Formula.
Quello che merita ricordare è che sistemi come la formula di Kelly possono essere d’aiuto quando un investitore è convinto di saperne di più del mercato in virtù di un “punto di vista diverso, e più corretto”, come dice Mauboussin.
Si tratta di situazioni infrequenti e alla portata solo di alcuni.
Anche quando si presentano, è fondamentale non illudersi: le probabilità che un investitore è in grado di assegnare, nella migliore delle ipotesi, all’evoluzione futura di una società sono solo “un’approssimazione,” come sottolinea Pabrai. E ciò impone che ogni calcolo sia fatto in modo “conservativo.”
Concentrati sui giochi di arbitraggio
L’arbitraggio è un’attività che sfrutta le differenze di prezzo tra beni e attività finanziarie uguali o simili su mercati diversi per generare profitti con rischi molto bassi o inesistenti.
E’ un modo, insomma, per guadagnare senza doversi preoccupare di eventuali perdite: una situazione tanto vantaggiosa che ammettere di averne approfittato, per un investitore di rango, può risultare persino imbarazzante.
Come ebbe a dire una volta Buffett, parlando alla Columbia Law School: “Visto che mia mamma stasera non è qui, vi confesso di essere stato un arbitraggista.”
Ci sono molte forme di arbitraggio. Quelle sui mercati finanziari tipicamente offrono margini che scompaiono in fretta per l’intervento di giocatori specializzati, abili e molto rapidi: sono gli arbitraggi che avvengono, ad esempio, tra azioni correlate (come quelle della Berkshire Hathaway, classe A e B) oppure ancora in occasione degli annunci di fusioni tra aziende (merger arbitrage).
A Pabrai interessa però in particolar modo quello che definisce “Dhandho arbitrage”. Di che si tratta?
Immaginate, dice Pabrai, un barbiere che lavora come dipendente nel salone di una cittadina. A un certo punto nota che di tanto in tanto cominciano ad arrivare clienti da un quartiere di nuova costruzione a un po’ di chilometri di distanza, dove il negozio di barbiere ancora non c’è.
Il nostro comincia a fare un po’ di conti. Quei clienti, se potessero, preferirebbero andare a tagliarsi i capelli vicino a casa. Mettere in piedi una bottega modesta ha un costo limitato. E inizialmente potrebbe dividere il suo tempo, part-time, tra il negozio dove lavora come dipendente e la sua nuova attività.
I rischi sono limitati, e il margine su cui può contare è la distanza fisica tra il quartiere di recente costruzione e la cittadina. Anche se il suo servizio dovesse rivelarsi un po’ inferiore, e i suoi prezzi un po’ superiori, per molti residenti del nuovo quartiere la bottega vicino a casa risulterebbe comunque conveniente.
E’ così, osserva Patel, che molte startup prendono avvio. E per un certo periodo di tempo riescono a lucrare profitti superiori alla norma.
Alla fine, tutti i margini d’arbitraggio finiscono per ridursi fino a scomparire (nel nostro caso, il quartiere potrebbe espandersi ulteriormente e attirare nuovi saloni, finché il rapporto tra botteghe di barbiere e residenti arriverà a essere simile a quello della cittadina vicina).
Per molti imprenditori, l’avvio di una nuova iniziativa non è frutto di uno smodato amore per il rischio, ma deriva piuttosto dall’individuazione di una opportunità di arbitraggio – che a volte può durare per molti anni con margini enormi.
Per l’investitore intelligente, sono queste le società su cui puntare. “Cerca sempre le occasioni d’arbitraggio”, conclude Pabrai. “Consentono di guadagnare elevati ritorni sul capitale investito con rischi bassi o praticamente inesistenti.”
Nella terza parte di questo articolo vedremo gli ultimi tre principi del value investing, nell’interpretazione di Pabrai, con l’aggiunta di una fondamentale postilla sull’arte di liquidare, al momento opportuno, i propri investimenti.